Fabio Clerici: la sua poesia. Chi punirà gli abusi?

Il poeta che si occupa di problemi sociali, in particolare della violenza nelle sue diverse forme, maneggia una sostanza viva e in qualche modo esplosiva. Nella prosa, chi scrive può fare la stessa cosa ma riesce a prendere le opportune distanze. Chi fa poesia, no. Qualsiasi cosa descriva è costretto, volente o nolente, a finirci dentro.

Un poeta non è né sarà mai un cronista, quando scrive qualcosa in versi. Non può trattare di certe cose, distaccandosi emotivamente da quello che dice. Non può denunciare, senza essere coinvolto direttamente, senza, in un certo senso, sporcarsi le mani. Fabio Clerici questo lo sa bene e non teme di esporsi.

Il suo libro di poesie “Ogni abuso verrà punito”, edito dalla Casa Editrice e Associazione “Tracceperlameta”, tratta della violenza, della sopraffazione di una persona sull’altra, del più forte nei confronti del più debole, in genere, la donna, il minore, il disabile ma anche la natura, gli animali; tutti quelli che l’autore definisce gli “invisibili”.

Che girone è quello della violenza, in particolare quella domestica?

E’ davvero un girone infernale. Da quella angusta e tetra porta di ingresso che pochi si azzardano a varcare, perché censurata o repressa, si entra in una zona oscura, primigenia della psiche umana, nella quale si annidano pulsioni, istinti primordiali, ossessioni dove la follia balla in modo osceno tra Eros e Thànatos.

La poesia di Clerici, oltre alle metafore, quella del pozzo, ad esempio, (Il pozzo è lì ove le paure nascono) è ricca di immagini forti che ricostruiscono visioni degenerate (boccone pregiato di un istinto malato) anche dalla parte di chi le infligge, soffrendo esperienze passate (Non amo quelle creature/ma idolatro di loro le movenze/ricordando di me la caliginosa infanzia) ma, nel contempo, riuscendo a mettersi dalla parte della vittima (Non me ne sono accorta,/forse sono già morta).

Anche altre sono le risorse stilistiche della sua poesia: quelle fonetiche come l’allitterazione e l’anafora, quelle sintattiche come parallelismi e reiterazioni, anche se, considerati i temi trattati e la proterva esigenza di radicarsi alla cruda realtà, senza retorica, senza abbellimenti, senza infingimenti, tutto è coperto da un velo, talora pesante, di fatalistica tristezza.

D’altra parte, solo un poeta coraggioso e determinato come Fabio Clerici poteva muovere i suoi passi in questa landa desolata e inesplorata senza timori. Se lui vi entra non è per fare un reportage, o una analisi sociologica o storica. Queste cose non rientrano nella sua prospettiva. Lui è lì, davanti a certe drammatiche esperienze, per coglierne il dolore, la sofferenza, l’umiliazione, i pianti, i lamenti…

Fabio Clerici

Cosa ci racconta Clerici?

Storie vere, di ordinaria depravazione ma anche di riscatto. E lo fa, come abbiamo visto, entrando nella mente contorta dei pedofili, nelle spire allettanti del web, esaminando il fenomeno dello Jugendamt, della violenza del branco, dell’infibulazione. Affiancando a storie con protagonisti ben individuabili (Noa Pothoven), immagini di altre storie comuni: il lavoro silenzioso del poliziotto che indaga sui reati informatici, esaminando le parti più torbide del web, i viaggi del sesso, ecc.

Il libro di Clerici è diviso in tre parti, la seconda si intitola le “Donne di cui non si sa”, la terza “Nuovi casi e cose”. Qui le poesie riguardano problemi di stalking, alcoolismo, consumismo compulsivo, ambienti reali, ricettacoli di droga, come il boschetto di Rogoredo, violenza sugli animali, fino a ricordare (per non dimenticare mai) il male più grande, cioè l’abuso di potere, che è la “radice di ataviche tirannie” e quindi i campi di concentramento nazisti, il famigerato Binario 21 e la più grande delle violenze, anche se la più subdola di tutte, l’indifferenza, che molto spesso colpisce senza alcuna esclusione tutti noi.

La denuncia raramente è esplicita nella poesia di Clerici (Denuncia, perché/l’amor possesso non è) ma deve scaturire come reazione in chi legge, come moto di riprovazione, di rifiuto spontaneo di fronte all’inumanità e all’atrocità di certi comportamenti (abusarono/fra risa e ludibrio/di quel corpo di plastica).

Il poeta, facendo ricorso a un lessico comune, scarno, ruvido, vuole far arrivare al lettore il contenuto fortemente emotivo delle sue composizioni, condividerlo per poterlo superare insieme. Per poterne uscire catarticamente, senza finirne imbrattati.

Insomma, la poesia di Clerici si addentra nell’abisso, nell’ignoto, percorre vie impervie e inesplorate, inventa sistemi espressivi che possano dare voce a realtà inesprimibili altrimenti, lo fa con estrema cautela e sensibilità, perché sarebbe facile esserne risucchiati, sprofondare addirittura in esso ma alla fine il poeta è sempre in grado di riemergere, ci indica un senso, una via d’uscita, un’idea di speranza (La scimmia diviene il magnifico cigno).

Inutile negare, che leggendo le sue poesie usciamo da questa esperienza diversi. Il poeta ci ha fornito armi nuove. Abbiamo respirato, quasi fino a rimanerne intossicati, il suo disagio, la sua sofferenza, mentre ci presentava con la viva crudezza delle sue parole, una società confusa e dolente ma non ci è sfuggito il suo messaggio. E se in fondo siamo tutti formiche, schiacciate/ dal lato oscuro della nostra esistenza, siamo anche… eroi di tutti i giorni,/combattiamo l’ignoranza/affrontiamo l’impotenza

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